I carciofi sono un vanto della cucina romana e tra i piatti più gustosi, per alcuni da usare come secondo o contorno, per altri sostanzialmente come antipasto. Vari sono i piatti che si possono elaborare con i carciofi, ma il più immediato è quello alla “Giudia”, uno dei vanti della cucina di Giggetto. Il segreto del carciofo sta nel saperlo “capare”, cioè preparare bene, liberandolo prima delle foglie esterne e poi dalle punte più dure. L’oggetto delle cure avrà così assunto una specie di forma sferica, “a rosa” e sarà pronto per la successiva cottura. I carciofi, salati, sono messi a friggere con molto olio: devono galleggiare. Dopo 20 minuti si tolgono e si aprono a forma di rosa. Si rimettono in padella nell’olio a fuoco fortissimo per un paio di minuti e infine si fanno scolare su una teglia bucata e vengono serviti ben caldi.
Sono elemento della dieta mediterranea, la pastasciutta rappresenta la base dei primi piatti all’italiana. Semplice, composto di acqua, farina, sale e in certi casi, uovo, sia giustamente meritata il primo posto sul podio gastronomico. Sembrerà buffo ricordare che all’origine il sugo per condire non prevedeva l’uso del pomodoro, ma era il risultato della lunga cottura in umido di un bel pezzo di manzo o di piccione. A proposito di pastasciutta e di spaghetti c’è una realtà divertente: quando arrivarono i Piemontesi a Roma nel 1870, si temette la prima disgregazione della tradizione gastronomica romana. Arrivarono le tradizioni della cucina di tutta Italia, ma i romani non si fecero incantare e si rivelarono particolarmente attaccati ai loro piatti, tanto da creare addirittura dei sodalizi gastronomici, come quello degli “spaghettari”. Di questi gruppi, non bellicosi ma gaudenti, ne sorsero molti in quel periodo che ricordiamo ancora oggi con la celebre canzone “La società dei magnaccioni”.
“È arrivato un tipo strano, pare un matriciano” così venivano appellati i simpatici abitanti della fiorente cittadina e persino il Belli li ha fatti oggetto di una maligna guerra di penna. Nonostante questo, prima con i formaggi ed il maiale e poi con il pomodoro, Amatrice ha ben meritato di conquistare un primo posto a tavola. Roma difendeva bene i suoi spaghetti e le sue fettuccine, con impegno e costanza ma poi alla fine ha dovuto capitolare. I bucatini “alla matriciana”, per dirlo alla romana, restano e resteranno sempre la pietanza delle “5 P”, Pasta, Pancetta, Pomodoro, Peperoncino e Pecorino. Esistono di questo piatto numerose varianti e la più conosciuta e quella senza pomodoro, detta “alla Gricia”. Questo piatto viene ricordato da alcuni storici della cucina come quello del “fischio” perché se si succhia con troppa frenesia il boccone, il bucatino intriso di sugo emette un fischio non del tutto garbato ma di sicuro divertente.
Già da tempo immemorabile fuori delle trattorie romane, su cartelli scritti a mano, si leggeva “giovedì gnocchi e sabato trippa”, quei gnocchi belli e fragranti, di patata bianca e farinosa, che rappresentava una promessa di gusto e di star bene. Il Belli li ha decantati più volte nelle sue poesie, un vecchio proverbio rinnova dicendo “ridi, ridi che mamma ha fatto gil mio occhi”. Gli gnocchi possono essere accompagnati sia con sugo di carne che di pomodoro; alcuni preferiscono sostituire le patate con il semolino. Naturalmente un bel sugo di carne, ben ristretto e saporito, ne arricchiscee il sapore, mentre un condimento di pomodoro e basilico li rende un piatto gradevole e leggero, da consumare volentieri anche d’estate. Gli gnocchi fatti a mano devono avere una piccola fossetta al centro, che va fatta con la punta di un dito. Si pensi comunque che gli gnocchi sono antichi e già nel ‘700 li preparavano alla stessa maniera di oggi ma, in assenza ancora del pomodoro, li condivano con burro, zucchero e cannella.
La pagliata fa parte del “quinto quarto” del vitello o dell’agnello, cioè delle interiora, che sono una valida rappresentanza di come la cucina romana possa essere povera ma in grado di fornire piatti eccellenti. La base è costituita dall’intestino tenue dell’animale, che più è giovane e più è gradevole. Aldo Fabrizi diceva che doveva essere di vitella appena nata, mentre Carnacina affermava che per i buoni piatti ci vuole quella di bue; da Giggetto troverete la “pajata di vitella”. La ricetta più classica è quella dei “i rigatoni co’ la pajata”. Qualcuno potrà avere un po’ di ritrosia o di pregiudizio ma, passato il momento di accettazione, potrà gustare ed apprezzare un piatto delicato e sostanzioso, che ben merita di stare nelle file della cucina romana.
Prima di tutto occorre parlare dell’olio, e dell’olivo che ricopre di foglie argentate più di un terzo dell’Italia. È così importante che già nel Medioevo, al Campidoglio se ne conservava una misura legale, il “congio”, ricavata nel marmo di un’urna funeraria. L’olio ha sempre avuto una parte importante nei condimenti, ma ha dovuto combattere una dura battaglia con lo strutto, che nei fritti sembrava insostituibile. La cucina romana e ricca di fritti, sia di carne che di pesce, che di vegetali vari; forse fra gli anziani c’è ancora chi si ricorda i pezzetti di broccoli, cavolfiori, zucca gialla, patate, polenta, eccetera, che le vecchie friggitorie romane vendevano a 5 pezzi per un soldo. Spesso le comitive dei giovani come le coppie eleganti, non disdegnavano di far la fila per godersi questa semplice leccornia, portandosela poi spesso in osteria, per innaffiarla con un buon vino dei castelli poi l’avvento dei bar e delle pasticcerie ha fatto passare di moda questo gusto, ma per fortuna ci sono oggi dei posti, come anche Giggetto, che stanno riportando i fritti misti a portar via agli antichi splendori.
Il pesce rappresenta nel Lazio un elemento importante tra le risorse alimentari naturali di mare, lago e fiume. Già gli etruschi erano ottimi pescatori e giravano il Tirreno per arricchire la loro dieta alimentare, quest’uso fu poi trasmesso ai Romani. Essendoci sempre una grande richiesta, i romani, soprattutto in età Imperiale, divennero insuperabili maestri nell’arte di allevare i pesci d’acqua salata e dolce ed i frutti di mare. A quei tempi la natura era prodiga; basti pensare che il Tevere era così ricco e pescoso che sia le spigole che gli storioni risalivano il fiume per riprodursi. Ecco perché a Roma il pesce non è mai mancato e si è creata una solida posizione nella cultura gastronomica. La ricca varietà di pesce e di modi di cottura è stata citata spesso dagli stranieri, ricordando, ad esempio Goethe, che nel suo celebre “Viaggio in Italia” cita una fruttuosa pesca e le successive prelibatezze ittiche cucinate. I pescivendoli romani sono stati sempre numerosi ed uno dei mercati più importanti era quello del Portico d’Ottavia, dove sono state ritrovate le famose “pietre di pesce”, in uso allora per esporre la merce al pubblico. I Peccati di gola per il pesce erano così frequenti che persino Dante colpisce di penna Papa Martino IV mettendo nel Purgatorio, a causa della sua passione per le anguille, le ciriole dei romani, affogate nella vernaccia.
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